Il figlio del farmacista – Mario Tobino

In una nuova veste, torna in libreria per la storica casa editrice fiorentina Vallecchi, «Il figlio del farmacista», romanzo d’esordio dell’autore viareggino scritto nel 1938 e pubblicato per la prima volta nel 1942. E se la copertina è più moderna e accattivante, all’interno ritroviamo le parole dell’autore in veste originaria, con quel suo parlare schietto e lo stile ancora aspro in termini di prosa. Molto apprezzabile, l’idea sposata dalla stessa casa editrice di reinserire tra le prime pagine l’introduzione dello stesso autore che dopo vent’anni, si vedeva ripubblicare la prima opera, frutto di una penna giovane e quasi – per lui stesso – irriconoscibile.

«L’ho sfogliato, l’ho riletto: mi specchio mi smarrisco; sono contento, fuggo, ne sono fiero; sono a volte allegro come quel tempo.»

«Gli piaceva al figlio del farmacista inanellare le frasi, come era ingenuamente sicuro, in compagnia delle fresche immagini!»

Ed è proprio così, per immagini, che Il figlio del Farmacista, o meglio Mario Tobino, racconta di sé, degli anni della giovinezza, della formazione e del suo modo di percepire il mondo. Un’anima irrequieta a contatto con una collettività fatta di persone con sensibilità assai diversa dalla sua e che spesso è portato quindi a criticare.

Tra queste pagine ritroviamo la Viareggio d’un tempo, quando ancora era piccola cittadina di mare e di pescatori. La farmacia, dove l’autore è cresciuto, la preparazione dei medicinali mediante le erbe, le loro virtù tramandate tra generazioni; poi l’amore per il padre, del quale ne elogia l’aspetto fisico, il carattere fiero e la capacità di essere venuto su dal niente, in un paese nuovo che gli era ostile, così costruiendo una «casa fatta di carne.»,

«egli veniva dalla Spezia, era un forestieraccio, il suo cognome non piaceva agli indigeni, dava noia agli indii che il padre non uscisse per le strade sfaccendato, non frequentasse i caffè, non usasse la retorica locale, non avesse debiti e innanzi tutto che lavorasse così fino all’ultimo…»

E ancora, gli studi a Bologna, la laurea in medicina, il manicomio dove inizia a lavorare. Ma soprattutto la poesia che tanto ama, cerca, insegue.

Un libro dove l’ansia di vita e le forti ambizioni si mescolano all’assurdità dell’incoerenza che caratterizzano l’uomo e per le quali Tobino è affascinato fin da ragazzo, appassionato osservatore del genere umano e dell’esistenza in generale. Tutta la bramosia di vita viene così riversata in questo libro carico di emozioni che si guarda bene dall’essere solo una cronologia di eventi da lui vissuti. In queste poco meno di cento pagine, Tobino sembra procedere per istinto, lasciandosi ispirare dalla passione e dal suo carattere sanguigno. Sperimenta, è in cerca della propria voce, ancora acerba in fatto di prosa. E allora gioca con i vari registri, talvolta ironico, altre malinconico, sognante o enfatico. Ne nascono capitoli molto differenti tra loro, che mai annoiano, perle di rara bellezza. E lui che non sembra divertirsi abbastanza, gioca con se stesso in uno “sdoppiamento di personalità”, parlando in terza persona del figlio del farmacista, tra l’io narrante e persona narrata, quasi a volersi mimetizzare tra le pagine.

Pagina dopo pagina, percepiamo lo scorrere del tempo tra i ricordi e nelle sue parole che mantengono una dolcezza poetica al quale è molto legato, in un turbinio di odio-amore e passione viscerale, alla quale dedica un intero capitolo.

«Se non ci fosse la poesia il giovane poeta si sceglierebbe una donna e contenti insieme andrebbero verso la morte e invece, perché, o poesia, perché tanti ne ammali, che ti hanno fatto questi giovani?»

Il libro si conclude con il capitolo dedicato al manicomio, posizionato alla fine come fosse un faro che da lì in poi illuminerà quel legame che sarà essenziale per Tobino tra l’esperienza psichiatrica e la scrittura. Amerà tanto il suo lavoro da dedicarne anima e corpo, studiando, lavorando e vivendo all’interno dello stesso ospedale psichiatrico.

«si accorse dunque, dopo poco che viveva in manicomio, il figlio del farmacista che i matti non erano per lui mistero ma con estrema facilità s’impadroniva del loro pazzo pensiero tanto da poter discorrere la loro lingua…»

Mi sento di concludere questo mio pensiero con le parole dell’autore che tanto mi hanno colpito e che in una frase racchiude il libro, ma soprattutto la perfetta descrizione del figlio del farmacista.

«Sono sempre stato per la lingua volgare, quella di tutti, ho preferito il cuore al sottile estetismo.»

Manuela

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