Scherzetto – Domenico Starnone

“L’angoscia della vecchiaia”

Un uomo stanco e un nipote petulante e vitale, la tenacia della vita dentro e dopo di noi, la rabbia di invecchiare. Quando i genitori del piccolo Mario, quattro anni, partono per un convegno, il bambino viene affidato al nonno, un vecchio illustratore piuttosto burbero che da tempo vive a Milano, da solo e nella sua routine, e che per l’occasione ritorna a Napoli.

Fu un viaggio infastidito da sudori di debolezza e dalla voglia di tornarmene a Milano. Pioveva, mi sentivo teso. Il treno tagliava raffiche di vento che opacizzavano il finestrino con rivoli tremolanti di pioggia. Ebbi spesso paura che i vagoni schizzassero via dai binari, travolti dalla tempesta, e constatai che più si invecchia, più si tiene a restare vivi. Ma una volta a Napoli mi sentii meglio malgrado il freddo e la pioggia. Lasciai la stazione e nel giro di pochi minuti raggiunsi l’edificio d’angolo che conoscevo bene.

Il racconto affilato, perfido e divertente, uno “scherzetto” da camera, si svolge tra quattro mura e un balconcino. Tra i due si gioca una partita di alleanze, rivalità e giochi non proprio divertenti.

Mi costrinse sia al gioco della scala, sia a quello del cavallo. Il primo mi fece sbadigliare di continuo. […] Vederlo salire e scendere instancabilmente, mi diede un senso di sfinimento. […] Si trattava ora di fare il cavallo. Dovetti mettermi, soffiando e gemendo, a quattro zampe.

L’anziano misantropo e imbranato duella con un piccolo saputello-perfezionista. La lotta è tra la ferocia e la tenerezza con momenti quasi allegri quando “per scherzetto” il nonno viene rinchiuso sul balcone. Mario richiede attenzione, è incuriosito dal mestiere del nonno, ma anche profondamente critico con un occhio che sorprende e stupisce l’uomo che invece ricerca a Napoli le abitudini di Milano mentre le nostalgie si intrecciano riportandolo agli anni della giovinezza e dell’infanzia legandolo così su un piano sconosciuto al piccolo Mario.

Gli invidiai l’ingovernabilità dello strappo nel viso e nella gola. Non sapevo se avevo mai riso così, di sicuro non ne avevo memoria. Quale potenza c’era in quel modo di ridere di nulla e insieme dell’essenziale.


Con straordinaria eleganza stilistica e spietata coerenza, Domenico Starnone mette in scena i nostri difetti, le nostre paure, le nostre cattiverie. Scherzetto è un romanzo che sotto alla piacevole lettura di una divertente competizione generazionale, offre profondi spunti di riflessione. Sull’umanità, alle prese con lo sgretolarsi delle proprie certezze e della propria identità. E sull’arte, a interrogarsi sull’eccezionalità, il talento e i propri limiti.

Non so, stamattina, se ho paura per il bambino o ho paura del bambino.

Un romanzo coinvolgente e forte, una piacevolissima lettura. Consigliato a chi fa i conti ogni giorno con uno spiritello senza educazione che fingiamo di non vedere, un’energia che ci anima la carne debellando a scadenze fisse ogni compostezza, anche nei più composti.

Manuela

TITOLO: Scherzetto – Pag. 164

AUTORE: Domenico Starnone

EDITORE : Einaudi

Uvaspina – Monica Acito

Assurdo. Più mi piace un libro e più devo aspettare giorni o anche settimane, per scriverne. Vorrei subito parlarne al mondo, inserirlo fieramente e con prontezza su questo blog che credevo ‘scalcinato’ invece scopro (con piacere e infinita gratitudine nei vostri confronti) essere molto seguito, però le parole mi restano soffocate, decisamente intrappolate in quel gorgo di emozioni e pensieri che si crea subito dopo la parola ‘fine’ di una storia che ti ha catturato…

A ogni modo, se è vero che con un libro si viaggia lontani e leggeri (perché senza valigie) ebbene, in un attimo mi sono ritrovata nel fulcro di una Napoli caliente e verace, con il cuore che pulsava a mille dal turbamento e i personaggi della famiglia Riccio così ben caratterizzati al punto che credevo di conoscerli da una vita e di averli tutti vicino a me, nella stessa stanza, in carne e ossa, con ‘La spaiata’ prima della fila… Pure la voce di questa ‘malaffemmina’ sono riuscita a immaginarmi, a sentire: il timbro potente e acuto da inequivocabile ‘chiagnazzara’ che non si dà pace per aver perduto il proprio fascino e quindi ogni volta che il marito Pasquale Riccio esce di casa la sera dopo cena, si perde in penosi e inutili teatrini con finte lacrime e logorroici lamenti i quali vengono però sorbiti solo dai suoi inermi figli, Uvaspina e Minuccia…

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La tentazione di essere felici – Lorenzo Marone

È strano come la vita possa cambiare da un momento all’altro, come un passo falso possa mandare tutto all’aria e come un attimo di felicità possa dare un senso a un’intera esistenza. 


Cesare Annunziata è un vecchio burbero e brontolone, vive da solo, da quando la moglie è morta cinque anni prima. Ha un figlio gay, che ancora non gli ha confessato la sua omosessualità, una figlia avvocato, madre e moglie infelice, e un nipotino al quale non fa troppo da nonno. Vicino agli ottanta, passa le sue giornate così come vengono, qualche chiacchiera con la gattara della porta accanto, un bicchiere di vino con l’amico Martino, vecchio pure lui che non esce più di casa, e qualche sfizio carnale che Rossana gli regala di tanto in tanto. Tutto cambia quando un giorno nel condominio arriva una giovane coppia.

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Era mia madre – Iaia Caputo

Se volete leggere qualcosa sul rapporto madre-figlia, il romanzo di Iaia Caputo uscito per Feltrinelli nel 2016, ad esempio, potrebbe fare al caso vostro.

Il titolo, ‘Era mia madre‘, diretto, esplicativo, presuppone un rapporto al passato, lascia immaginare una madre non più vivente. In realtà, in gran parte della narrazione, la protagonista-figlia deve fare i conti con un tempo, tra l’altro abbastanza lungo e sfiancante, durante il quale la protagonista-madre è ancora in vita, sebbene ‘imprigionata’ in un corpo privo di coscienza tenuto in vita da un macchinario ospedaliero.

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La stagione del fango – Antonio Fusco

L’autore ci propone la sesta avventura del commissario Casabona. Senonché, questa volta, il capo della Squadra Mobile di Valdenza si trova dalla parte sbagliata: quella di inquisito. Accusato di omicidio, si vede costretto a fuggire per poter organizzare personali indagini che svelino e sconfiggano i disegni che lo incastrano. In una storia complessa che intreccia vicende personali e trame criminali, il protagonista dovrà cercare alleati, col rischio di cocenti delusioni.

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La donna degli alberi – Lorenzo Marone

Con “La donna degli alberi” (Feltrinelli, 2020), il suo ultimo romanzo, Lorenzo Marone sorprende decisamente i lettori che lo seguono da tempo. Lo scrittore napoletano è conosciuto per le trame ambientate nella sua città, intessute di dialoghi diretti e colorati dal dialetto, di situazioni in cui commedia e dramma possono incontrarsi, come capita a volte nella vita vera. “La donna degli alberi” presenta innanzitutto un cambiamento radicale nell’ambientazione: una località di montagna non precisata in cui si ritira la protagonista e narratrice, una donna decisa a ritrovarsi dopo un periodo difficile. Per farlo decide di tornare alla baita di famiglia, ora disabitata ma densa di ricordi dell’infanzia. Riuscirà lei, donna di città, a riscoprire quel legame con la natura che sentiva profondamente da bambina? Potrà guarire da quelle ferite di cui non sappiamo la causa, ma che sembrano averla segnata profondamente?

Oltre al cambio di filone romanzesco, altro elemento di stupore è sicuramente lo stile. Lo scrittore abbandona i battibecchi rapidi e schietti, i ritmi frenetici, i coloriti termini dialettali, per un linguaggio che sembra poesia appena trasfigurata in prosa. Una modalità espressiva che ci fa percepire in maniera evocativa la metamorfosi interiore della “donna degli alberi”. Le immagini della natura, il ciclo delle stagioni, una passeggiata sulla neve o nei boschi, tutto appare come un simbolo di cambiamento, o come specchio o metafora di un particolare stato d’animo.

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La notte delle malombre – Manlio Castagna

8017. Ottomila diciassette. Ottanta diciassette. Non un numero qualunque, non una cifra data dal caso. È il 3 marzo 1944 e quel numero 8017 rappresenta un treno, un treno partito da Napoli carico di uomini, donne, bambini e famiglie ciascuno con la propria storia e diretto al sud, a Potenza, il luogo dove la guerra non c’è più, un luogo dove la guerra è adesso soltanto un ricordo lontano e dove c’è il cibo e la ricchezza. Tuttavia, qualcosa accadrà durante il viaggio. Arriverà mai quel treno a destinazione?

Tre le voci protagoniste di questo intenso romanzo soltanto apparentemente per ragazzi: Brando Carenza, che è chiuso in un silenzio impenetrabile e fatto di responsabilità per quella famiglia che è chiamato a sostenere, Nora Moscati, il cui sonno è leggero come un velo e la cui vita è circondata dalle “malombre”, ombre nere che la terrorizzano e che sono premonitrici del divenire e Rocco Saturno che ha imparato che la morte non riguarda, almeno in tempo di guerra, soltanto i grandi.

Tre voci, quelle dei ragazzi, che si incontrano e che ci accompagnano per tutto quello che è il viaggio di cui ci narra Manlio Castagna con semplicità e verità. Perché quel che conosciamo ne “La notte delle malombre” è un fatto realmente occorso che il romanziere riporta alla luce e ci fa rivivere.

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Qualche domanda a … Pierangelo Consoli

Pierangelo Consoli – Napoli

Pierangelo Consoli, classe 1981, è cresciuto a Sparanise (Caserta) ed oggi vive a Salerno con la famiglia. Ha appena vinto il Torneo Letterario IoScrittore (Gruppo Editoriale Mauri Spagnol), edizione 2020, nella sezione e-book. Il nostro blog gli ha voluto fare qualche domanda al volo, fresco di vittoria…

L913: parlaci un po’ di te. Chi sei, cosa fai, dove vivi.

Per prima cosa mi preme ringraziarvi per questa intervista. Diffondere un testo è molto difficile, quasi più che scriverlo. Chiunque ti tenda una mano in questo senso ha un grande valore, e gli va riconosciuto. Vivo a Salerno. Io e mia moglie ci siamo conosciuti a Napoli e abbiamo vissuto lì anni molto belli. Ci siamo trasferiti perché sognavamo una realtà più tranquilla dove crescere i nostri figli. Sono laureato in lettere moderne e ho conseguito un master in gestione e selezione del personale, ma non ho mai esercitato nell’uno o nell’altro senso. Ho fatto diversi mestieri, alcuni piuttosto faticosi. Ho viaggiato molto. Adesso ho un lavoro stagionale che mi consente di scrivere a tempo pieno dall’autunno alla primavera. Inoltre collaboro con Satisfiction, ed è una cosa di cui vado molto fiero. Chi sono? In questo momento, soprattutto un padre.

Pierangelo all’opera

Demetra: Come ti senti ad aver vinto un Torneo così importante?

Quando ho vinto ero un po’ agitato. È stato bello tutto il percorso, il torneo è lungo e articolato, ci sono molti libri da leggere e da giudicare. Alcuni sono di ottimo livello. È una lotta, dieci su diverse migliaia è una montagna alta. La cosa più bella è che a premiarti sono i lettori. Questo è un modo per testare la storia su un pubblico potenziale e trasversale. È un’esperienza che consiglio, bisogna però affrontarla con lo spirito giusto. Inoltre, la vera vittoria è stato l’editing. In questo senso mi sento di ringraziare Lucia Tomelleri che mi ha seguito nelle ultime stesure. Se questo libro avrà fortuna, parte del merito è suo.

Demetra: hai già in mente nuove opere alle quali lavorare?

Non precisamente. Tra poco nascerà il mio secondo figlio e questa è una cosa che ti lascia poco a cui pensare. Qualcosa comunque c’è, c’è sempre. Però non è definito. C’è qualcosa sul tango e Osvaldo Soriano. Un thriller e una cosa davvero difficile cui provo a dare una forma da anni.

Paola: Quando e come è nato il tuo desiderio di scrivere?

Non esiste un tempo, esiste un modo. Credo di avere l’attitudine al pensiero narrativo. Questo c’è sempre stato. Desiderare di farne una professione è arrivato molto dopo. A diciannove anni. Scrivevo a mano. Adesso scrivo a macchina (almeno nelle prime stesure…) Un giorno scriverò solo a computer, quando i computer saranno superati. Ho sempre letto tanto.

Lida: Quattro-cinque parole per spiegarci di cosa parla il tuo libro d’esordio.

(Non è il mio libro d’esordio, attenzione. Ce ne sono stati altri prima.) Parole: scelgo Napoli. Senza avrei dovuto scrivere un libro differente. Scelgo Umanesimo, inteso come salvaguardia della dignità dell’uomo. Il sistema in cui viviamo, in cui siamo cresciuti, predilige l’Economia… è terribile. Un’altra parola è Confini, un concetto astratto che detesto se inteso in senso politico e geografico. L’idea che ci siano spazi preclusi per decreto è abominevole. Poi scelgo Pietas, intesa in senso stretto, antico. Un sentimento che va oltre la semplice empatia, è piuttosto un abitare il corpo altrui, sentirne il peso, il dolore. “Come il buio per le stelle” parla di questo.

posto di lavoro

Lida: Quale è stata la cosa più difficile nella stesura del libro?

Senza dubbio la costruzione del passato dei personaggi. Lo scopo di questo libro è provare a capire le ragioni degli altri, cosa spinge qualcuno a compiere atti sconsiderati, anche atroci. Ma anche gesta di incomprensibile altruismo. Era importantissimo tracciare una linea di vita credibile che giustificasse tutte le scelte. Per questo ho dovuto studiare molti saggi sulla Siria, per esempio, sul Califfato. Ho letto anche saggi sugli esorcismi, perché la scena relativa al passato di padre Augusto non sembrasse “cinematografica” e banale. A volte si leggono libri interi al solo scopo d’inquadrare una scena di poche pagine. Ma questo è il bello della letteratura: la ricerca. Inoltre – io e mia moglie – siamo andati fino in Andalusia per fare dei sopralluoghi. La scelta di Siviglia non è casuale.

Lida: Quando scrivi, segui l’ispirazione, “l’attimo fuggente”, o ti imponi una vera e propria scaletta con rigidi orari e quant’altro?

La scrittura ha bisogno di metodo. Scrivere è una cosa artigianale, che si fa ogni giorno. È una cosa contadina. Per quanto mi riguarda, ho una routine abbastanza precisa. Prima che diventassi padre era quasi maniacale, dopo sei costretto a ricavare gli spazi. In ogni caso lavoro meglio di mattina e correggo nel pomeriggio. Prendo molti appunti. La fase preparatoria è lunga. Scrivo direttamente sui testi che studio, a margine delle pagine come piccole didascalie. Quando mi sento pronto ricopio tutto, provando a mettere ordine. Mi piace tracciare mappe che poi attacco sul muro o su una lavagna. Cerco di orientarmi nella genealogia dei personaggi. Appunto le date, perché poi finisce che ci si perde. Prima scrivevo di getto, adesso no. Cerco espressioni esatte. Uso molto il vocabolario. Leggo a voce alta. Se una frase non suona, bisogna cambiare.

Grazie Pierangelo, da parte di tutti noi!

Libriamoci913

La vita bugiarda degli adulti – Elena Ferrante

“Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione.”

 

incipit bello di Concetta B.

Almarina – Valeria Parrella

Napoli è una città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla. Così, dopo una mezz’ora dal decesso (parlavano in questo modo i medici ma di chi?), Antonio era nella morgue e io scendevo le scale che, volessi o non volessi, mi stavano facendo svoltare vita»

Il suo nome è Elisabetta Maiorano, è nata a Napoli nel Novecento, è una cinquantenne vedova del marito Antonio ed è insegnante di matematica a Nisida, un carcere minorile dove la parola d’ordine è andare e venire, un luogo, ancora, in cui la vecchia vita finisce per lasciar posto ad altro, sia che la si guardi con la prospettiva del detenuto, sia con quella del visitatore che per una ragione o l’altra vi fa ingresso.

Due sono le protagoniste che si fanno da specchio l’un l’altra: la prima è questa docente che vive in un dolore mai completamente elaborato, l’altra è una ragazza diciassettenne di nome Almarina Luchian condannata per furto (il minore dei reati commessi e per questo salvata da un passato di violenze e soprusi, di padri padroni approfittatori e maligni), che in quel futuro vuol crederci.

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