Le percezioni sensoriali nell’autismo e nella Sindrome di Asperger – Olga Bogdashina

Le differenze percettive nell’ autismo, rappresentano nella teoria di Olga Bogdashina, il nodo centrale dei disturbi dello spettro autistico. E non sono dettagli o aspetti accessori rispetto alle teorie cognitive, linguistiche o comportamentali. Comprenderle significa analizzare perché questi bambini appaiono “stranieri in ogni cultura”.

Olga Bogdashina è co-fondatrice dell’ International Autism Institute, autrice di almeno 12 libri sulla materia, insegna in Gran Bretagna e in Europa. Non nasconde di essere contemporaneamente ricercatrice e madre di un ragazzo autistico che le ha insegnato molto sugli aspetti percettivi dell’autismo.

Molti dei comportamenti autistici si ritrovano anche in altri disturbi sensoriali, basti pensare alla cecità e alla sordità dove si riscontrano sintomi simili. Nel primo caso potremmo osservare una persona che cerca di orientarsi toccando gli oggetti e annusando i cibi, nel secondo un soggetto che non risponde alle domande ma guarda fuori dalla finestra e pare non accorgersi della presenza altrui come se non intendesse comunicare. Se la nostra osservazione si basasse solo sul comportamento certe bizzarrie verrebbero inquadrate nei disturbi dello spettro autistico; se vicevresa mostrassimo attenzione alla loro percezione dovremmo concludere che essi sono il risultato di una altro deficit, “potremmo adattare l’ambiente circostante ai loro bisogni – scrive Bogdashina – e introdurre strategie appropriate per comunicare”.

L’autrice ritiene che molti dei fallimenti degli interventi terapeutici nell’autismo dipendano dalla mancanza di approfondimento delle esperienze sensoriali e dello stile percettivo nell’ autismo. In questa ottica, Bogdashina passa in esame le varie teorie cognitive dell’ autismo, dalla teoria della mente a quella del deficit delle funzioni esecutive. Il libro è invece incentrato sulla teoria percettiva sensoriale a cui l’autrice da la massima credibilità.

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Almarina – Valeria Parrella

Napoli è una città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla. Così, dopo una mezz’ora dal decesso (parlavano in questo modo i medici ma di chi?), Antonio era nella morgue e io scendevo le scale che, volessi o non volessi, mi stavano facendo svoltare vita»

Il suo nome è Elisabetta Maiorano, è nata a Napoli nel Novecento, è una cinquantenne vedova del marito Antonio ed è insegnante di matematica a Nisida, un carcere minorile dove la parola d’ordine è andare e venire, un luogo, ancora, in cui la vecchia vita finisce per lasciar posto ad altro, sia che la si guardi con la prospettiva del detenuto, sia con quella del visitatore che per una ragione o l’altra vi fa ingresso.

Due sono le protagoniste che si fanno da specchio l’un l’altra: la prima è questa docente che vive in un dolore mai completamente elaborato, l’altra è una ragazza diciassettenne di nome Almarina Luchian condannata per furto (il minore dei reati commessi e per questo salvata da un passato di violenze e soprusi, di padri padroni approfittatori e maligni), che in quel futuro vuol crederci.

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