
Prendete in considerazione il mio dolore.
“Tu che eri ogni ragazza” (Wojtek edizioni) sarebbe potuto intitolarsi “Tu che eri ogni persona”, o “Tu che eri ogni dolore”, perché quello che l’autrice Emanuela Cocco va a esaminare sono dei fili di ragnatela che potrebbero unire ogni vita e la ferocia (talvolta inconsapevole, più spesso freddamente calcolata) con cui questi fili vengono recisi.
Perché la storia di Gesù, che cerca di dare un senso alla morte di sua figlia e s’interroga sull’amore incondizionato, a di Jungla,che uccide una parte di sé, di Duca, che non sa più perché fa quello che fa, e di Lady Haze ,che disprezza perché è l’unico modo per sopravvivere, sono accomunate da una puntura di angoscia, che trascende il dolore immanente e quotidiano e deriva da un senso di separazione assoluto e insuperabile dal consorzio umano.
La pietà, invocata a più riprese dal coro composto dalle voci A e B, diventa coadiuvante del distacco e della divisione (vincenti e perdenti, fighi e sfigati, più e meno, dentro e fuori), una pietà che non è la pietas fondatrice di civiltà, quel sentimento che riunisce in sé il rispetto degli obblighi verso i propri pari, gli dei e lo Stato, ma è una pietà-manifesto politico ed estetico, una gara all’orrore più truce, una corsa verso un’abiezione così radicale da doverne prendere le distanze, da usare come riferimento per decidere cosa è umano, mostrabile, raccontabile, condivisibile e cosa non lo è, per poi far finire tutto in un magma nel quale i gattini hanno la stessa forza di uno stupro, e la violenza ha gli stessi colori di una gif glitterata.
Non sono abbastanza forte per amare. Non posso amare senza scegliere. Ma scegliere è un abominio, come dimenticare.
Non è facile raccontare come siano le separazioni a dare forza (al romanzo ) e turbamento (al lettore), non solo perché Cocco glissa sulle scene prettamente narrative e indugia su premesse e conseguenze, ma anche perché l’autrice indugia sui contatti mancati, sulle occasioni perse, sulla solidarietà che non si sviluppa, sull’amicizia che viene negata; e allora il punto nodale di tutta la vicenda (e di tutte le vicende) è un senso di abbandono e di incuria endemico, che investe persone, istituzioni, divino; ed ecco che trionfa un’indifferenza ostile e impaurita, una diffidenza che si innesta in una precarietà minacciosa e che coinvolge ogni ambito dell’esistenza; e che disarma, annichilisce, mutila, e talvolta uccide.
E rimane il dubbio che l’unica forma di pietas che ci possiamo permettere sia un’invocazione accorata ad una fine, qualsiasi fine, una liberazione individuale e collettiva dal tormento e da questa prolungata agonia.
(Recensione di Chiara Lecito)
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